Tredici testimoni, donne e uomini, raccontano in un libro edito da Strisciarossa, le loro storie di militanza nel Pci. Vite spese per il progresso, la dignità, la giustizia sociale e per dare un senso alla parola democrazia.
Le voci di un popolo. Accadde cento anni fa. E fu l’inizio della storia, lunga settant’anni, di un “partito comunità” che divenne non solo il più grande partito comunista dell’Europa occidentale ma segnò il cammino dell’Italia nei decenni successivi. Un modello «di grande politica popolare», scrive Livia Turco, dirigente del Pci per molti anni, nell’introduzione al libro Care compagne e cari compagni, edito da Strisciarossa.
Un volume che, grazie al lavoro di un gruppo di giornalisti che hanno lavorato all’Unità, raccoglie le storie di tredici testimoni, donne e uomini. Voci di un popolo che ha unito l’Italia perché radicato in ogni dove: con le sezioni e le cellule attive nelle fabbriche, nelle miniere, nelle borgate delle grandi città, nelle campagne e nei piccoli centri di montagna, nelle scuole e nelle università, tra gli italiani emigrati all’estero. Ovunque ci fosse la necessità di lottare per il progresso, la dignità, i diritti, l’emancipazione delle donne, per il riscatto sociale lì c’erano i militanti comunisti.
Generazioni diverse, in grado di mescolare esperienze per trarne insegnamenti: da chi aveva fatto la Resistenza a chi che negli anni Sessanta partecipò alle lotte studentesche o fu protagonista delle lotte operaie ponendo la questione della democrazia nei luoghi di lavoro oltre ai temi del salario, della casa, del diritto allo studio. Negli anni Settanta una nuova generazione si unisce alle altre per combattere il terrorismo nero e rosso, prende posizione sulle vicende internazionali, dal Vietnam al golpe in Cile. Sono gli anni del protagonismo femminile. Le donne del Pci, partito a forte matrice maschilista, si battono per il divorzio e la regolamentazione dell’aborto, per un sistema sanitario pubblico, universale, solidale e per la chiusura dei manicomi.
Infine, la generazione degli anni Ottanta che visse la ferocia degli attentati mafiosi che si trovò di fronte alla crisi dei partiti e alla questione morale che Enrico Berlinguer aveva lucidamente assunto come tema centrale della democrazia. La generazione che visse il dramma del terremoto in Irpinia, partecipando ai soccorsi con migliaia di volontari.
La sezione era la casa. Un popolo per il quale la sezione era una seconda casa e per qualcuno la prima. Il luogo dove studiare, confrontarsi, ritrovarsi nei momenti più duri del paese. Così Antonio Giallara, sardo, responsabile della cellula della carrozzeria alla Fiat di Torino, racconta di Berlinguer: «Quando veniva, ogni volta mi chiedeva: “Cosa pensano gli operai, cosa si aspettano da noi?”». C’è la storia di Carlo Ricchini, oggi novantenne che da cronista di La Spezia divenne capo redattore centrale dell’Unità. La seconda guerra mondiale, con tutte le tragedie che si porta dietro, gli fa perdere fiducia nel futuro. Rischia di perdersi seguendo un gruppo di giovani sbandati. Dopo l’attentato a Togliatti nel luglio del1948, decide di frequentare la sede del Pci. Lì trova ascolto, ma soprattutto tanti libri e le lezioni del professore di lettere Violanti che dedicava parte del suo tempo alla formazione dei compagni. Si diploma e comincia a fare il giornalista del quotidiano fondato da Gramsci: «Posso dire – racconta Ricchini – che il partito mi ha raddrizzato e salvato».
Le battaglie nelle periferie. La stessa presenza nelle borgate delle grandi città dove, dal dopoguerra agli anni Settanta, le famiglie vivevano nelle baracche e si battevano per chiedere una casa popolare. È vivido il ricordo di Loredana Mozzilli, entrata nel Pci a 16 anni, nel 1962. Nella neonata sezione dell’Eur insieme a una ventina di studenti dell’istituto Vivona, si trova a discutere con i tanti compagni lavoratori edili che lavorano in quella zona dove i palazzi nascono come funghi attorno agli agglomerati di legno e lamiere. I ragazzi fondano un circolo culturale, lottano contro il fenomeno dell’analfabetismo e per ottenere la realizzazione della legge 167, quella sulle case popolari, approvata nel 1962 e applicata soltanto dal 1965.
Un impegno profondo. Anche per dare senso alla parola democrazia.
tratto da www.libereta.it
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